“Sono il simbolo di quello che non deve accadere mai”. Le parole dell’ex Carabiniere Placanica, 20 anni dopo il G8 di Genova

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“Non sono un eroe. Io sono il simbolo di quello che non deve accadere mai”.

Sono le parole pronunciate da Mario Placanica, il carabiniere che uccise Carlo Giuliani il 20 luglio 2001, a Genova, in una straordinaria e drammatica intervista televisiva rilasciata a In Onda, La 7.

Parole secche, durissime, limpide.

Placanica è un uomo solo, distrutto, consumato (così dirà di se stesso), che maledice il G8 e quei giorni incandescenti nelle strade di una città trasformata in una grande trappola per topi. Uso questa metafora perché mi ricorda i disegni di Banksy.

Placanica è il servitore dello Stato ormai in congedo, spoglio di divisa e di ruolo, esiliato nel suo piccolo borgo nativo in Calabria, è la persona che porta il peso di una catastrofe, quella del ragazzo che ha ucciso ma anche la sua, perché i suoi progetti di vita sono finiti in quella maledetta piazza Alimonda, in quel maledetto luglio di venti anni fa.

Oggi Placanica parla perché capisce di essere stato la pedina inconsapevole di un gioco deciso da altri: quelli che stavano oltre il recinto blindato della zona rossa, quelli che stazionavano nella sala operativa, quelli che hanno comandato una repressione brutale contro centinaia di migliaia di manifestanti e poi hanno liberato gli “animali spiriti” che alla scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto hanno fatto festa, devastando, torturando, macellando vite.

Placanica e pochi altri hanno pagato il conto di Genova.

I registi di quel film-verità di sapore sudamericano invece hanno fatto carriera, come dice l’ex carabiniere.

La politica, quasi tutta, ha esorcizzato i fantasmi di quella mattanza, si è accontentata di spiccioli di verità, per viltà o per complicità non ha voluto fare i conti con una vicenda che inaugurava emblematicamente un nuovo secolo, nel segno della chiusura ermetica all’ascolto delle domande di libertà, di dignità, di giustizia, di pace che il movimento no-global aveva trasformato in un’immensa contestazione popolare e in una nuova rivolta generazionale.

Tornare a Genova è necessario.

Nel senso di riaprire una discussione, ricostruire i fatti ben oltre l’insopportabile banalizzazione di chi spartisce colpe in parti uguali tra manifestanti e polizie, di chi non c’era e parla replicando un copione sempre uguale di falsificazione della storia di chi ha provato a rovesciare l’ordine del discorso.

Faceva paura la bellezza e la radicalità di quel popolo ribelle: assomigliava davvero al fanciullo della fiaba che esclama “il Re è nudo”.

Tornare a Genova non è solo un esercizio di memoria.

Io, come tanti altri, ho impiegato anni a elaborare lo spavento senza fine di quei giorni, la sensazione di non avere una via di scampo, quel logorante collettivo sentimento di vulnerabilità dinanzi all’arbitrio delle forze dell’ordine (l’ordine del disordine) e alla complementare violenza dei blackblock. 

Tornare a Genova è necessario per cercare le tracce di qualcosa di osceno che resiste e si rinnova, un codice pre-democratico che cova le sue uova di serpente nella retorica degli eroi (e in Italia sono chiamati eroi anche miliziani mercenari), che vive nella difesa a oltranza dei carnefici quando i carnefici indossano una divisa, che rivendica nei propri riti una eredità fatta di abusi e impunità, che esercita il monopolio della violenza anche contro le leggi.

C’è una sub-cultura, un po’ fascista e un po’ mafiosa, su cui le classi dominanti fanno leva quando serve e che fanno finta di non vedere fino a quando una videocamera non le cattura e le restituisce alla coscienza del mondo.

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