Quanto «costa» un detenuto allo Stato? E quanti soldi vengono usati per la «rieducazione» prevista dalla Costituzione?

quanto costa un detenuto
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Tutti ormai diventati esperti di vaccini, tutti a confrontare l’efficacia dell’uno o dell’altro soppesando la copertura rispetto alla recidiva variante Covid di turno. Giusto. Eppure lo stesso razionale approccio chissà perché non viene naturale applicarlo all’evidenza statistica del mondo delle carceri, dove lascia totalmente indifferenti il fatto che chi espia la pena tutta e solo in carcere torni a delinquere nel 68 per cento dei casi, contro il 19 per cento di chi invece la sconta in parte in misure alternative al carcere.

I COSTI

Tutti ormai attentissimi a non sprecare un euro dei miliardi del recovery fund, e a spaccare giustamente il capello in quattro su ogni programmato impiego di quel denaro. Eppure nessuno che invece si chieda se, visti i risultati di recidiva, abbia senso spendere ogni giorno in media 154 euro per un detenuto se la quota che va alla sua rieducazione è appena 35 centesimi, se persino la parte che va al suo mantenimento è 6 euro e 37 centesimi, e se solo 4 detenuti su 100 hanno la chance di avviarsi a un lavoro «vero» e cioè non alle dipendenze stesse dell’amministrazione carceraria ma per committenze o cooperative esterne.

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Una qualche controprova che forse la convenienza sociale (in termini di maggiore sicurezza per la collettività) dovrebbe spingere a modificare il modello di esecuzione della pena c’è, e la si trova guardando ad alcune esperienze straniere, come quelle – osserva Filippo Giordano, professore di economia aziendale alla Lumsa di Roma e di imprenditorialità sociale alla Bocconi di Milano – non solo della Norvegia ma anche di Germania o Spagna, esperienze «che dimostrano come sia effettivamente possibile contrastare la recidiva attraverso una maggiore apertura ai programmi riabilitativi e una gestione del sistema penitenziario caratterizzato da un modello di management che consideri i detenuti come fruitori di un servizio» il cui scopo sia «conciliare sicurezza e rieducazione». È da questa «prospettiva manageriale» che il volume Il Carcere. Assetti istituzionali e organizzativi, scritto da Filippo Giordano, Carlo Salvato e Edoardo Sangiovanni (docenti e ricercatori di management delle università Bocconi e Lumsa) vorrebbe essere «il primo libro scritto in Italia ad adottare un approccio economico-aziendale e di management allo studio del carcere».

Nel raccogliere i risultati di un percorso di 4 anni di ricerca attraverso interviste nelle carceri milanesi di Bollate, Opera e San Vittore, il volume edito da Egea – che ha una prefazione di Marta Cartabia, prima donna a presiedere la Corte Costituzionale e ora ministro della Giustizia, e due inquadramenti del bocconiano economista aziendale Vittorio Coda e del provveditore all’amministrazione penitenziaria per la Lombardia, Pietro Buffa – mette a fuoco quanto sia cruciale allineare lo scopo che si vuole raggiungere dall’esecuzione della pena (sicurezza e rieducazione), i modelli organizzativi e i comportamenti individuali. E se si considera che il libro è stato scritto ovviamente prima dell’emergere dei fatti di Santa Maria Capua Vetere nell’aprile 2020, di gravità tale da dover essere istituzionalmente sanati il 14 luglio scorso dall’inedita visita in carcere del presidente del Consiglio Mario Draghi con il ministro della Giustizia Cartabia, colpisce come gli autori insistessero già sul fatto che la qualità delle interazioni detenuto-agente sia non solo «fondamentale per il benessere organizzativo e la qualità della vita degli operatori, ma anche il veicolo principale per portare a compimento la riabilitazione dei detenuti», in quanto «l’atteggiamento degli agenti è uno dei principali elementi che influenzano il benessere dei detenuti, il clima che si crea all’interno dell’organizzazione e il grado di bontà che caratterizza la gestione di un carcere.

Le ricerche dimostrano come il modo in cui il personale di prima linea usa la propria autorità ha un profondo impatto sull’esperienza del detenuto, inclusi livelli di ordine, sicurezza, stress e suicidio». E non a caso in Paesi con minor tassi di recidiva la maggior parte dell’organico impiegato nell’attività di custodia «non porta armi e viene formato attraverso corsi specializzati che toccano anche temi di psicologia e sociologia». È interessante notare che tra gli studiosi della materia ci sono anche posizioni che, come quelle di Livio Ferrari, Giuseppe Mosconi e Massimo Pavarini in Perché abolire il carcere. Le ragioni di «No Prison» (Apogeo), non nascondono «un’esplicita insofferenza per il riformismo penitenziario» e ritengono invece di «porre la questione della necessità di riproporre lo spirito e le tesi dell’abolizionismo carcerario», nell’assunto di base che «preliminarmente si debba mettere in questione e poi contestare la cultura della pena che è ancora oggi vincolata all’imperativo del castigo legale come duplicatore di violenza e dolore».

Per il manifesto «No Prison», infatti, «affermare che attraverso il castigo legale, cioè attraverso la sofferenza e il dolore, si possano perseguire finalità di inclusione sociale è inaccettabile logicamente quanto impossibile materialmente». Ma entrambi i punti di vista convergono sulla fondamentale importanza della «partecipazione dei reclusi alla vita dell’istituto, attraverso varie forme riconducibili anche – rimarca Giordano – alla fattispecie della partecipazione democratica»: nell’ottica cioè «di responsabilizzare i detenuti e metterli nella condizione di riprendere il controllo della propria vita», una volta terminato di scontare la propria pena.

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