Come operano i droni Usa nella lotta al terrorismo e chi li «guida»

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L’uccisione di al Zawahiri a Kabul: i velivoli basati nei Paesi del Golfo Persico, la squadra dei tre «piloti» davanti agli schermi in America, l’attesa e l’attacco «in diretta» video

Quando un capo jihadista viene «neutralizzato» non c’è mai una sola versione a narrare l’epilogo. Le versioni corrono veloci come il vento, mescolate a supposizioni, illazioni, teorie. Alcune fondate, altre complottiste. Fa parte del Grande Gioco.

Il nuovo sceriffo in città

Per al Zawahiri siamo solo all’inizio e al centro del racconto c’è un drone della Cia , uno dei simboli della lotta al terrorismo a livello globale. L’intelligence ne ha fatto la sua arma principale. Era «il nuovo sceriffo in città», come disse un alto dirigente per spiegare che era l’unico modo per poter eliminare ricercati in zone proibite agli agenti perché troppo lontane e pericolose. È un cecchino appostato che attende che la sua preda esca dal buco. In quel momento la colpisce con missili guidati, a volte «aiutati» da elementi sul terreno che possono illuminare il bersaglio.

Dal Golfo Persico

I droni sono basati in piste nelle aree di intervento e in quelle limitrofe. In questo caso è probabile che sia partito dal Golfo Persico, vista il rifiuto di Paesi della regione di ospitarli. Il decollo è eseguito da un centro di controllo locale, quindi una volta in quota i comandi passano ad un’altra centrale, magari negli Stati Uniti, alle porte di Washington o in Stati amici. Qui, all’interno di un cubicolo, ci sono il pilota, l’addetto alle armi, l’uomo dell’intelligence. Siedono davanti a una serie di schermi, luci basse. Guidano la missione via satellite, assistiti da telecamere e sensori. L’aereo guidato in remoto può stare su una zona per ore, analizza, segue, verifica. E soprattutto aspetta il momento propizio. Le immagini sono registrate e possono essere girate ai vertici militari o politici. È un blitz in diretta. Una volta riconosciuto il possibile nemico si passa all’azione, con l’ordine di tiro.

Il ritorno a casa

Chiuso l’attacco, il velivolo torna «a casa», mentre gli informatori devono trovare le prove – se possibile – che lo strike ha fatto centro. A volte solo il DNA può dare la certezza. Sono stati uccisi così centinaia di militanti, dalla Somalia allo Yemen. I terroristi hanno accusato il colpo, preoccupati dalla minaccia costante sulle loro teste. A inseguirli la Cia, ma anche il Pentagono con il suo reticolo di installazioni. Una di queste a 40 minuti a nord di Las Vegas, con gli equipaggi diventati dei pendolari della guerra. Alla mattina nel «box» della base, alla sera a casa poco lontano dai casinò. La campagna è diventata una continua evoluzione della caccia all’uomo, con nuovi mezzi e altri tipi di bombe. Compreso un ordigno che invece di esplodere contiene delle lame che triturano il tetto di un veicolo e i suoi occupanti. Alcuni analisti, osservando la mancanza di deflagrazione sulla casa di al Zawahiri non hanno escluso che gli americani abbiano impiegato un sistema simile, noto come Ninja. Una soluzione per cercare di evitare danni collaterali, che purtroppo ci sono. Per molte ragioni.

Danni collaterali

L’esplosione può investire dei passanti. Le informazioni all’origine dell’attacco sono sbagliate. L’obiettivo era insieme a innocenti. C’erano degli ostaggi. Proprio a Kabul, un anno fa, un’intera famiglia è stata scambiata per una cellula dello Stato Islamico e un drone statunitense l’ha spazzata via. Anche per Osama Bin Laden venne considerata l’opzione dell’incursione aerea, ma venne accantonata perché poteva avere conseguenze per i civili. La mano passò ai commandos della Marina.

corriere.it

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