Borsellino e la strage di via d’Amelio, la prescrizione salva i poliziotti accusati di calunnia

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Reato prescritto, perché non c’è l’aggravante di avere favorito la mafia, per Mario Bo e Fabrizio Mattei, i poliziotti imputati di calunnia aggravata per aver indotto il falso pentito della strage di via D’Amelio, Vincenzo Scarantino, a mentire accusando se stesso e altri innocenti di aver partecipato all’attentato che, il 19 luglio 1992, uccise Paolo Borsellino e cinque agenti di scorta. Per il terzo agente, Michele Ribaudo, assoluzione piena perché il fatto non costituisce reato. È il verdetto del processo di primo grado sul depistaggio della strage, che porta con sé ulteriori strascichi per possibili false testimonianze di altri funzionari di polizia testimoni e nuove menzogne di Scarantino. Una sconfessione dell’impostazione della Procura di Caltanissetta che, dopo aver ristabilito un pezzo di verità smascherando la Grande Bugia che per 16 anni ha inquinato i processi sul delitto Borsellino, ha cercato di fare un passo avanti nell’interpretazione di quei fatti. Senza successo.

«Un ordinario agguato di Cosa Nostra»

Nonostante i tempi e le modalità con cui avvenne (un attentato terroristico a meno di due mesi dall’eccidio di Capaci che uccise Giovanni Falcone), la strage di via D’Amelio fu inquadrata dagli investigatori di allora in un ordinario agguato di Cosa nostra. Con la partecipazione di un piccolo malavitoso di borgata imparentato con un uomo d’onore, Scarantino appunto. Questo stabilirono le prime indagini e i primi verdetti, caso chiuso con le confessioni del sedicente ladro della Fiat 126 imbottita di tritolo e fatta esplodere davanti alla casa della madre del magistrato: quello Scarantino sconfessato solo nel 2008 da Gaspare Spatuzza, vero autore del furto dell’auto-bomba. Un depistaggio non direttamente collegato, ma ipoteticamente connesso, agli altri misteri legati alla morte di Paolo Borsellino. A cominciare dalla sparizione dell’agenda rossa del magistrato, verosimilmente prelevata dalla sua borsa dopo l’attentato.

L’inchiesta deviata

«Le indagini hanno subito condizionamenti esterni e indebiti da parte di taluni degli stessi inquirenti — hanno scritto i giudici nell’ultima sentenza sull’attentato di via D’Amelio —, che hanno “forzato” le dichiarazioni dei primi pentiti in modo da confermare una verità preconfezionata e preesistente, pur rimanendo ignote le finalità perseguite». Arrivando a ipotizzare che «la decisione di morte assunta dai vertici mafiosi abbia intersecato convergenti interessi di altri soggetti o gruppi di potere estranei a Cosa nostra». La Procura di Caltanissetta è partita da queste conclusioni per contestare ai tre poliziotti l’aggravante di aver favorito la mafia con il depistaggio costruito attraverso Scarantino . Nella consapevolezza che i principali protagonisti dell’inchiesta deviata non ci sono più: dal questore Arnaldo La Barbera, morto nel 2002, al procuratore Giovanni Tinebra, morto nel 2017, passando dall’ex capo della polizia Vincenzo Parisi che incaricò La Barbera e mandò da Tinebra l’ex poliziotto Bruno Contrada, dirigente di quel servizio segreto che puntellò la «pista Scarantino» accreditandolo di contiguità mafiose inesistenti o quasi. Pm e giudici che hanno avallato le indagini sbagliate, invece, sono stati prosciolti o — nella maggior parte dei casi — nemmeno inquisiti. «Ma non sono mai arrivate le scuse», ha accusato l’avvocato Fabio Trizzino a nome dei figli di Borsellino, che ora si rammarica: «È una sentenza che non ci soddisfa ma ci prendiamo quel che di buono c’è». Cioè il riconoscimento della calunnia, ma con troppo ritardo «da parte dello Stato».

Il depistaggio

«Nessuno ha mai pensato di trovare la soluzione definitiva da questo processo», ha detto il pm Stefano Luciani aprendo la requisitoria con cui aveva chiesto condanne da 9 e mezzo a quasi 12 di pena. Partendo da un presupposto: «Scarantino ha recitato un copione come gli è stato detto di fare da La Barbera», aggiungendo il racconto di maltrattamenti e vessazioni per costringerlo ad accusare sette innocenti. Nonostante i difensori degli imputati di allora — a cominciare dall’avvocata Rosalba Di Gregorio, che in questo giudizio s’è trasformata in parte civile ed è costretta ad accontentarsi di «un altro pezzetto di verità» — avessero denunciato persino la «psicolabilità» del falso pentito. Ma Scarantino ha continuato a calunniare anche in questo processo accusando gli imputati che l’avrebbero costretto a mentire, hanno ribattuto i difensori dei poliziotti. In parte convincendo i giudici, che non hanno creduto alla prova della connessione con gli interessi della mafia. Ma il depistaggio c’è stato, sia pure prescritto. Le motivazioni della sentenza spiegheranno come e perché.

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